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Laccordatore

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L’ACCORDATORE

La giornata di febbraio era ventosa, leggermente fredda.

Manrico si avviò di buonora compiendo il tragitto consueto. Calpestò l’asfalto grigio, con passo a tratti deciso a tratti incerto, stringendo ogni tanto il bavero del cappotto blu intorno al collo.

Il traffico sfacciato di macchine e camion tormentava con i suoi fragori.

Giunto davanti al monumento, gettò un’occhiata allo specchio grigiazzurro del lago. Non c’era la bruma pesante e immobile dei giorni precedenti: l’aria era tersa, sferzante sul viso e sulle cose. Pungenti i raggi del sole di fine inverno.

Quando svoltò in via Lazzaretto,  la quiete era ferma.

Pochi secondi e metri lo separavano dal numero diciannove. Notò le persiane immobili e malinconiche, dischiuse sulla facciata ampia della casa e la cima dell’abete piegarsi verso l’interno della corte.

La porticina era semiaperta.

“E’ permesso?”

Gli si parò davanti Mimì, incredibilmente minuscolo come era sempre stato, con uno dei suoi soliti abiti fuori moda.

“Ah, sei tu Manrico- disse col tono familiare di sempre- ti aspettavo”. Manrico si piegò sulle ginocchia, chinò la testa e avvicinò le guance a quelle dell'ometto.

“Vieni, l’abbiamo sistemato qua a pianterreno”.

Lo condusse in una saletta strettissima attigua allo stanzone dove erano i pianoforti. Manrico rabbrividì quando vide le mani nodose incrociate sopra il petto e il viso giallognolo schiacciato contro l’imbottitura viola della cassa.

“Sei stato il primo ad arrivare” gli disse Mimì sommesso.

“Già – rispose Manrico– io il primo ad arrivare e tu l’ultimo ad accompagnarlo… e l’unico a rimanergli sempre al fianco”.

“Beh, ho sempre lavorato con lui in questo negozio” concluse l’ometto semplicemente.

Manrico appoggiò le mani sul bordo della cassa in radica di noce e ritornò indietro di molti anni.

 

Era una luminosa giornata di maggio, di mercato e di confusione allegra lungo la via che portava al Duomo.

Il bimbo biondo, dietro le persiane verdi del palazzo ottocentesco, guardava impaziente l’andirivieni della gente per  strada.

Finalmente, comparve un carretto da rigattiere con esposto alla vista un pianoforte verticale in radica di noce, di marca tedesca. Mimì accompagnava Giovanni Mastrandrea.

Il pianoforte prese posto nel soggiorno di fronte alle persiane verdi e alle tende di mussola.. Mastrandrea mise sotto uno dei piedi mezza molletta da bucato perché il kreutzer rimanesse completamente fermo.

Poi, si sedette davanti allo strumento e controllò la sonorità e le vibrazioni facendo scorrere le mani sulla tastiera.

Il bimbo biondo rimase subito affascinato da quelle dita che volavano tra i tasti e l’atmosfera della casa si riempì di magia.

Fu in quel momento che la madre di Manrico fece ingresso nella sala e il ragazzo notò l’espressione di Giovanni Mastrandrea. Non l’avrebbe mai dimenticata.

Bianca dell’O era una donna bellissima, dal portamento elegante e raffinato. 

Il marito, di origini tedesche come lei, le aveva anteposto l’ambizione di una carriera diplomatica. Lei si era rifugiata nell'atmosfera raccolta di casa, custodendo in segreto le traversie passate.

Mastrandrea era scattato in piedi riverente. Lei gli si era avvicinata radendo il pavimento con le scarpine color carne per porgergli la mano.

“Bisogna accordarlo una volta all’anno e tenerlo lontano dalle fonti di calore, perché i legnetti tendono a dilatare” aveva informato  con getto melodioso.

“Va bene, ogni anno verrà qua per accordarlo” aveva risposto lei con la voce che sostava sulle a.

La mamma di Manrico, Bianca dell’O, aveva voluto che fosse proprio l’accordatore ad impartire i primi rudimenti della musica al ragazzo.

“Il signor Giovanni conosce i pianoforti come un artigiano”.

Nonostante l’aspetto etereo, Bianca dell’O possedeva la concretezza della donna teutonica. Per il figlio desiderava che l’approccio alla musica fosse affettivo e pratico, temendo la freddezza di certi maestri che un tempo le avevano trasmesso il senso dell’inaccessibilità.

 

Manrico, un giorno di febbraio quando tornò dalla scuola, trovò Mastrandrea inginocchiato accanto al pianoforte aperto. Con una chiave agiva sui pironi per tendere le corde. Il ragazzo osservò la tavola armonica in legno di abete che faceva risaltare le vibrazioni: Mastrandrea gli spiegò come si innescava il meccanismo che portava alla percussione della corda. “Senti?!!...questo è un do diesis… ”.

Lui lo guardava serio e giudizioso.

Una domenica pomeriggio Mastrandrea condusse Manrico all’imbarcadero e gli disse che aveva imparato a conoscere la musica sull’acqua. a bordo delle navi aveva visto i pianisti e le ballerine.

Allora, davanti agli occhi attoniti del ragazzo si erano materializzate figure femminili che descrivevano ripetuti rondeau nella gaia atmosfera del lago.

Quello stesso giorno Manrico andò in via Lazzaretto, numero diciannove, e vide i pianoforti: molti erano di marca tedesca, altri americani o giapponesi.

Mastrandrea li presentava al piccolo allievo come se fossero stati degli amici. Certi risalivano all’Ottocento. I tasti d’ avorio erano ingialliti, ma sembrava che tutti chiedessero di essere toccati, provati.

Bianca dell’ O disse al figlio che nella voce di Mastrandrea c’era la musicalità dell’ uomo del Sud e che la moglie di Mastrandrea era morta il giorno delle nozze, come Euridice…Un vento impetuoso aveva fatto cadere un angolo di cornicione da un vecchio palazzo e il vestito bianco della bella sposa si era riempito di terra e di sangue. Il vento aveva scarmigliato le vesti e i capelli, sconquassato le porte e le finestre, straziato di dolore il viso dell’uomo.

Che aveva frapposto tra sé e la sua terra mille chilometri di ricercato oblio.

Manrico nell’età dell’adolescenza si era iscritto al Conservatorio e aveva studiato con testarda caparbietà.

Tutti gli anni, in un giorno di febbraio, l’accordatore si inginocchiava accanto al pianoforte, come ai piedi di una madonna azzurra, e faceva girare i pironi con la chiave per allentare o tirare le corde. Era un rituale che si svolgeva con benefico sentimento di parentela tra l’uomo del sud e la donna del nord.

Entrambi custodi di un dolore grande.

 

In seguito, Manrico scoprì che ogni giorno la madre ascoltava la Sonata in F minor numero 5 per violino e piano di J.S. Bach, nei movimenti del largo e dell’adagio.. Pensò che fosse stato Mastrandrea a farle conoscere quel brano ma, quando glielo chiese, lei non gli rispose.

La Sonata sembrava descrivere la lontananza e l’abbandono.

Quando Bianca dell’O morì, Manrico volle che, dal presbiterio, le note di Bach si levassero verso le alte volte del Duomo in tutta la loro nostalgica levità .

 

Manrico accarezzava la radica di noce e un rantolo gli squassava il petto. Mimì lo scosse e gli chiese di recitare insieme il Requiem.

Mentre pregavano incominciarono ad arrivare i visitatori. Ognuno sostava davanti al feretro per rendere omaggio al defunto e poi si accomiatava mormorando parole d’affetto.

“E il negozio?” chiese infine Manrico.

”E’ già chiuso da un po’. I pianoforti sono tutti venduti” gli rispose Mimì. Si congedarono.

Quando ripercorse il lungolago Manrico pensò ai brani che avrebbe eseguito l’indomani in Duomo.

Poi, girò lo sguardo verso lo specchio grigiazzurro: vide le ballerine sui cerchi concentrici descrivere i rondeau nel largo d’acqua.

E una fila di luci, sulla sponda opposta del lago.

 Teresa Cassani - 27/10/2023 23:40:00 [ leggi altri commenti di Teresa Cassani » ]

Sescrivo, mi viene da chiedere: ci conosciamo?

 Sescrivo - 09/10/2023 08:49:00 [ leggi altri commenti di Sescrivo » ]

Cara Teresa, Teresa Cassani, si legge proprio gustandolo, questo breve. E poi... Poi, la coincidenza; il tragitto di Manrico e il viaggio di Alma, l’amico morto e l’amica deceduta. Poi la frazione e "L’intero", la Val Biandino e la Valsassina; più si guarda e più si vede, è proprio vero. E poi mi scuso, per il mancato riscontro al commento che ho scoperto solo adesso (sono proprio un citrullo digitale e non so ancora muovermi qui).

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